SEASIDE
Premio Maretti 2013
(…..) Tibaldi rimane da subito attratto dalle periferie, e sin dall’inizio della sua pratica artistica diventano un tema importante da studiare; è affascinato da questi luoghi, luoghi reali di aggregazione ma periferie intese anche come categoria mentale. Ogni volta che deve iniziare un lavoro in queste zone pratica esercizi di conoscenza approfondita, in fondo si tratta della parte più importante del suo lavoro, l’incipit dal quale parte tutto.
Tratto da “Non puoi parlare di un artista se non conosci prima la sua vita”
di Sabrina Vedovotto
Conoscere profondamente il posto dove andrà ad insistere con le sue idee, che prenderanno forma solo grazie ad impulsi provenienti da territori come questi. Tibaldi però non si concentra solo sui luoghi, ma anche, e spesso, soprattutto, su chi quei luoghi li vive. Nella sua metodologia di lavoro infatti l’artista ricalca sempre lo stesso percorso, come abbiamo già accennato, un itinerario di conoscenza dei luoghi, delle persone, delle attitudini, dei modi di vivere, sia che il suo raggio di azione siano centri di aggregazione, sia che la concentrazione vada su categorie di persone. In fondo, cominciamo a definirla senza paura, la periferia è quel luogo che noi crediamo tanto lontano, ma che invece spesso ci cammina accanto.
Nell’affrontare questo tipo di realtà l’artista si infila, si inerpica, si appropria di stati d’animo, cerca il più possibile di vivere quelle situazioni per farle proprie. Solo così infatti è possibile poi restituirne una versione oggettiva, vivendo da dentro la realtà soggettiva. Passeggiare nei luoghi, assaporarne gli odori, spesso forti, acri, sentire le sensazioni, costruire dialoghi assai faticosi, rende la pratica della conoscenza molto simile a quella del vivere quotidiano, e il parlare, parlare parlare e ancora parlare, -ma anche ascoltare- permette alla sensibilità dell’artista di costruirsi un reticolato di conoscenze e di complesse relazioni sociali. Bisogna che queste persone, spesse volte considerate da tutti l’ultimo gradino della società, vedano nell’interlocutore qualcuno di cui fidarsi, a cui concedere la possibilità di raccontare, di aprirsi. E per fare questo, primo step naturale è certamente quello di renderli partecipi di avvenimenti della propria vita, affinchè la fiducia sia da entrambe le parti. Tutto ciò porta, credo, ad uno sfinimento psicologico, ma anche ad una consapevolezza di ciò che si sta per affrontare.
La sua residenza a Licola mare (Napoli) per oltre un anno, il periodo più lungo di permanenza in un luogo che non fosse la sua reale abitazione, probabilmente è stata dettata da una sua necessità di artista, ma credo anche di uomo, una voglia di andare, finalmente, ad insinuarsi profondamente e totalmente in un mondo distante dal proprio, a conoscere persone con storie molto lontane dai banali canoni . L’esigenza di introdursi e di portare alla luce alcune cose, alcuni particolari di vite lontane, diventa probabilmente la cosa più ovvia da fare, in un luogo così particolare.
Tibaldi rimane a Licola mare per oltre un anno dicevamo, non ponendosi nessun obiettivo di tipo artistico, semplicemente va a vivere lì, conoscendo molto poco le regole di quel posto. Affitta una casa in riva al mare, e prova a vivere alla maniera degli autoctoni, con resistenze oggettive come l’assenza del riscaldamento, con una presenza forte dell’umidità, con mille altre difficoltà precipue del luogo. Lo fa in maniera consapevole; solo avvicinandosi il più possibile al modus vivendi delle persone che vi abitano, avrebbe potuto, probabilmente, leggere in maniera tanto chiara ma disincantata le particolarità di quel luogo, e riprodurne una fotografia esatta. Riflettendo a posteriori sul lavoro principale realizzato dopo la permanenza, intitolato Licola Pop up, si capisce che lo stato d’animo prodotto in un luogo come quello deve avere sedimentato molto nell’anima di Eugenio, e una catarsi fisiologica deve avere avuto il suo peso affinché potesse poi venire fuori un lavoro con uno spessore sociale tanto importante. Il pop up esprime forza, carattere, personalità, e racconta quel luogo esattamente come lo si legge nella realtà. I miei occhi si sono posati prima sul lavoro dell’artista e poi sul luogo dal quale è partito tutto, eppure lo avrei riconosciuto fra mille, non tanto per i simboli iconologici ed iconografici che ci sono e si vedono, quanto per quel racconto che viene sussurrato da quei cartoni, per quelle presenze inesistenti ma vive.
Una rappresentazione così lucida e precisa di un luogo di questo tipo non è avvenuta ovviamente durante i mesi di permanenza li; in quel periodo infatti, come accennato, l’artista non si è assolutamente posto l’interrogativo su cosa avrebbe prodotto dal punto artistico vivere in quel luogo, su cosa ne sarebbe scaturito; ha condotto la sua vita in modo del tutto naturale, lasciandosi scivolare all’interno tutti quei piccoli dettagli, paradigmi che poi sono scaturiti all’esterno. Non subito però, giacchè un fisiologico distacco gli ha permesso di vedere i risultati di quel soggiorno in maniera più lucida e definitiva, pensandoli in maniera autonoma dai suoi sentimenti.
Tibaldi ragiona sul lavoro non pensando allo spettatore, al fruitore, mentre elabora e progetta percepisce stimoli per se stesso, utili poi alla trasformazione delle idee in soluzioni artistiche, eppure il suo lavoro è imprescindibile dallo spettatore, perché ne è parte integrante nella fase costruens e sempre soggetto di interesse nel momento della fruizione. Sebbene nel suo lavoro non esista una totale coincidenza tra l’intenzione semantica dell’artista stesso e la decodificazione del fruitore, proprio perché quest’ultimo si avvicina al lavoro con un personale vissuto estetico, risulta a volte corrispondente e verosimile la giustapposizione tra chi la storia l’ha vissuta e chi la sta leggendo. Certo con occhi ed esperienze diverse. Panosky afferma che “l’arte esprime la società perché l’oggetto figurativo concorre a produrre”. Nel caso specifico è proprio la società che viene sottoposta ad una lettura analitica precisa, dettata da esperienza sul campo. Coloro che nell’arco dell’anno vissuto a Licola hanno contribuito alla costruzione di rapporti, di storie, di esperienze, sono stati spettatori inconsapevoli di una griglia di sensazioni e di idee che poi ha portato alla realizzazione del Pop up, ma anche di tutti gli altri lavori realizzati. I vicini di casa, i piccoli rivenditori di generi di prima necessità, i passanti, gli extra comunitari, i bambini, tutti hanno contribuito alla esecuzione di un casus, di un percorso che ha visto Tibaldi arrivare alla conclusione di realizzare un oggetto, una scultura, una installazione di grandi dimensioni, eppure richiudibile e trasportabile.
Metaforicamente come Licola, trasportabile nella testa, nella memoria, ma anche richiudibile e quindi posta negli anfratti, negli angoli del dimenticatoio. Da tutti. Eppure grazie al lavoro del Pop up la piccola cittadina Licola per un attimo è entrata a far parte di una realtà lontana, il cosiddetto mondo dell’arte, che l’ha sdoganata dall’idea banale e ovvia che tutti riconoscono di quel luogo. Molti di coloro che vedranno questo lavoro, che entrerà a far parte di una collezione museale, avranno forse la curiosità di chiedersi cosa sia Licola, dove si trovi, cosa succeda in un posto del genere. Potranno forse pensare, con una lettura superficiale e priva di supporto conoscitivo, che gli elementi individuati e rappresentati siano di pura fantasia; sarà la realtà a sconfessarli, se avranno voglia di andare a vedere dal vivo, e i loro occhi individueranno i piccoli particolari rappresentati sul cartone. Licola Pop up, con i suoi elementi minuziosi, con i suoi pertinenti dettagli richiama fedelmente la realtà; ci sono le case, i grandi palazzi, ma anche il mare, la foce. E poi ci sono le parabole, le mille parabole, che sono diventate l’elemento di riconoscibilità di questi luoghi, che ritroviamo in tutte le periferie del mondo, in tutti i luoghi dove la povertà e l’ignoranza, nel senso etimologico del termine, definiscono i luoghi di aggregazione. Gli abitanti di Licola sono coloro che vengono considerati l’ultimo tassello della civiltà, persone che per storia contesto di nascita e mille altre caratteristiche, probabilmente non sono nemmeno riconosciute dalla società stessa in cui vivono. Una sorta di mondo parallelo, contraddistinto però anch’esso da una forte realtà, da storie che ricalcano fedelmente degli stilemi, persone con necessità di sopravvivenza, bambini i cui volti non hanno mai visto una strada al di fuori di quella della loro casa, vecchi che non riconoscerebbero quartieri della propria città. Persone nate cresciute sedimentate in una sola zona, che è la loro zona di appartenenza, dalla quale fanno fatica ad uscire, magari per difficoltà oggettive, magari per paura, forse per impossibilità. Vite che nascono si compiono e terminano sempre in uno stesso luogo, senza che nessuno tenga conto dei loro diritti sociali economici e culturali. Licola, ma come Licola decine di posti sparsi nel mondo, ha una struttura chiusa, un architrave all’interno del quale è difficile entrare; conoscere gli autoctoni non è impresa da poco, perché impauriti dallo sconosciuto, dal forestiero, loro che sono abituati da sempre a vedere le medesime facce, gli stessi volti. Entrare a Licola significa andare nel cosiddetto territorio di nessuno, dove le regole sono differenti da quelle che noi riconosciamo come tali; ce ne sono delle altre però, non è il luogo dell’anarchia, è semplicemente un mondo parallelo. Un mondo nel quale vige l’illegalità, dove mancano i servizi primari, dove nessuno in pchi riescono a pagare le utenze. Persone che per vivere sono costrette a fare lavori umili, non riconosciuti dalla società civile. Oppure, spesso, lavori al confine con la legalità, o totalmente illegali, ma che sono altresì assolutamente fondamentali per la sopravvivenza del cosiddetto apparato sociale legale. E si arriva al concetto di realtà siamesi, due realtà contigue, unite da una serie di dinamiche sociali, eppure distanti. Licola, come tutte le periferie, viene definita un nonluogo, termine utilizzato per la prima volta da Marc Augè nel suo omonimo libro, neologismo entrato a far parte della lingua italiana nel 2003; spazi che non hanno identità, storia, relazione. Tibaldi invece, che legge attentamente questo testo, pone questi luoghi in contrapposizione con la definizione di Augè, definendoli dei super luoghi, degli spazi fisici e mentali da dove partono e si dipanano racconti, storie, esperienze, luoghi divenuti imprescindibili per ogni tipo di società.